Sabato 4 e domenica 5 febbraio si è svolto il Campo invernale adulti, che quest’anno per la prima volta è stato frutto di una bella collaborazione fra l’Azione Cattolica di Carpi e quella di Modena e Nonantola. Interessante la scelta del tema, che ha voluto approfondire la correlazione fra giustizia e dignità, ricordandoci che ogni uomo vale per quello che è e non per quello che fa, e proponendo un percorso che, partendo dal modello sociale di giustizia che sperimentiamo oggi, arriva a fotografare la situazione delle carceri italiane e conclude con un focus sugli abusi nella Chiesa e la tutela delle vittime e dei sopravvissuti.
NON C’È GIUSTIZIA SENZA DIGNITÀ, PERCORSI PER UNA TRASFORMAZIONE SOCIALE – dott. Francesco M. Castelli, giurista e docente universitario, è vicepresidente dell’associazione Sulle Regole, che promuove la riflessione su giustizia, Costituzione e legalità (4.02.2023)
L’idea di tenere unite giustizia e dignità, valori in correlazione tra loro, è un percorso che – come ha detto il primo ospite del campo il dott. Francesco Castelli – ci porta “molte più domande che certezze. Stare dentro, abitare le domande aperte è già una categoria conoscitiva, non che chiude e irrigidisce, ma che apre alla dinamica di ascolto con l’altro, con il mondo, con il diverso”.
Per approfondire il significato di giustizia dobbiamo capire il modello sociale a cui noi facciamo riferimento (perché è la società che determina il tipo di giustizia). La storia ci consegna due modelli di convivenza sociale: quello piramidale/verticale – un vertice che comanda chi sta sotto e che subisce, un sistema che implica disuguaglianze -; l’atro modello diametralmente opposto, che nella diversità dei soggetti trova pari dignità e opportunità, è quello della società orizzontale.
Castelli ci ricorda, inoltre, che nonostante la nostra Costituzione abbia cercato di costruire una società secondo il modello orizzontale, continuiamo a pensare che lo stare insieme sia regolato dai principi della società verticale che porta con sé discriminazione e nega la pari dignità delle persone.
Capiamo bene che è una cultura difficile da cambiare, basta vedere la disuguaglianza che abbiamo intorno. Il percorso di trasformazione ha bisogno di tempo che va oltre i 78 anni della nostra Costituzione.
Serve tempo e impegno sociale, cioè di tutti.
Per mettere al centro la dignità servono:
– l’art. 1 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”
– e l’art. 3 della Costituzione Italiana: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
Questi due articoli ribadiscono il concetto che ogni uomo vale per quello che è, non per quello che fa. Serve allora un rovesciamento del modo di stare insieme cercando di costruire e di vivere in una democrazia che abbia non solo come valore formale, ma sostanziale la pari dignità e l’ART. 3 della nostra Costituzione cerca di coniugare legalità con giustizia sociale. La Costituzione apre alla società orizzontale in cui anche il sistema penale è da rivedere perché come è oggi viola la dignità innanzitutto.
Nella società orizzontale i rapporti sono basati sul dialogo, sul confronto e sul conflitto, inteso come apertura alla differenza dell’altro, chiamandoci ad essere cittadini responsabili (“prima che ai tribunali rispondiamo agli altri” ci ha detto Castelli).
La strada della democrazia, però, è faticosa: la dignità è sempre in relazione con la libertà e quindi la limitazione avviene solo allo scopo di consentire agli altri di esercitare la propria libertà e dove la pena deve creare e non distruggere responsabilità – mentre oggi è annichilimento.
Serve una nuova cultura sociale della pena, in cui la giustizia sia maggiormente riparativa, diventando sempre più atto in cui la società è coinvolta.
C’è la necessità, nella fatica di fare crescere la democrazia, di fare crescere un processo rieducativo, di fare crescere una cultura, abitare cioè l’attesa e la gestazione di processi generativi: “il tempo è superiore allo spazio”.
La conclusione di questa prima parte è stata in realtà una ripartenza attraverso tre domande:
1. È possibile pensare a forme diverse di sanzione, che coinvolgano vittime e condannati in un processo di concreta responsabilizzazione? (Gherardo Colombo)
2. Le leggi, le istituzioni, i cittadini credono davvero che nell’uomo detenuto per un reato c’è una persona da rispettare, salvare, promuovere, educare? (Card. Martini)
3. Calamandrei, davanti all’art. 3 “pari dignità sociale”, si chiede: “Come potete pensare che chi ha avuto queste promesse e vi ha creduto e vi si è attaccato come un naufrago possa essere condannato solo perché chiede, civilmente e senza fare male a nessuno, che queste promesse siano adempiute come la legge comanda?
CARCERE, DIGNITÀ E GIUSTIZIA – dott. Stefano Anastasìa, tra i fondatori dell’associazione Antigone, promuove la costituzione del Difensore civico dei detenuti; è stato presidente della Conferenza nazionale del volontariato della giustizia; ha collaborato alla istituzione del primo ufficio per la tutela dei diritti dei detenuti voluto dal Comune di Roma. Durante il II Governo Prodi, assume le funzioni di capo della segreteria del sottosegretario alla giustizia con delega all’amministrazione penitenziaria (5.02.2023)
C’è un’idea radicata da tempo di giustizia per equivalenza, che si basa sulla restituzione del male che si è subito, un modello retributivo, che restituisce male a chi lo ha fatto.
Il modello retributivo è nostalgico, secondo la tradizione del capro espiatorio, e miope perché limitato a concentrarsi sulla punizione del fatto e NON alla comprensione delle sue cause. Questa idea retributiva della pena è contestata da sempre, da Seneca all’Illuminismo, perché non si dovrebbe mai giudicare la persona, ma solo il fatto.
Le statistiche ci dicono che oggi il tasso di recidiva nelle carceri si aggira intorno al 70%, un dato drammatico che smentisce l’efficacia dell’attuale sistema penitenziario.
Premesso che la pena deve limitarsi alla privazione della libertà e non ad altre sofferenze (e questo non lo si può dare purtroppo per scontato), occorre recuperare l’idea universalistica della dignità umana, riconoscendo ai detenuti il diritto alla rieducazione e alla speranza.
Solo attraverso collaborazioni carcere-comunità, capaci di progettualità, si possono creare i presupposti per ristabilire il rapporto tra società e carcere senza pregiudicare il grado di sicurezza di tutti, un esempio è la giustizia riparativa.
LA TUTELA DELLE VITTIME DEGLI ABUSI NELLA CHIESA – Alvise Armellini e don Gottfried Ugolini (5.02.2023)
C’è innanzitutto da fare una distinzione fra vittime e sopravvissuti agli abusi nella Chiesa: le vittime sono coloro che, non essendo capaci di sopportare il peso del trauma dell’abuso, cadono in uno stato di isolamento psicologico che le può portare fino a togliersi la vita; i sopravvissuti sono persone che sono riuscite a superare il profondo trauma e hanno la forza di denunciare fatti e abusanti, anche a distanza di molti anni.
Ne hanno parlato Alvise Armellini, giornalista corrispondente in Italia dell’agenzia Reuters e coautore, insieme al vaticanista di Repubblica Iacopo Scaramuzzi, del podcast La Bomba dedicato a un tema che in Italia non è “scoppiato” come altrove, e don Gottfried Ugolini, sacerdote e psicologo della diocesi di Bolzano-Bressanone, responsabile del Servizio regionale per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili del Triveneto, nonché membro del Consiglio di presidenza del servizio nazionale per tutela dei minori della CEI.
Entrambi hanno ringraziato l’associazione e gli organizzatori per la scelta coraggiosa di affrontare un tema così delicato in una parrocchia – per Alvise Armellini è stata la prima volta ad essere invitato a parlare del podcast in pubblico e la prima richiesta a provenire da una diocesi, una parrocchia.
Armellini ha iniziato citando un’intervista fatta dall’Associated Press a papa Francesco, nella quale egli afferma: “Io preferisco una Chiesa che si vergogna perché scopre i propri peccati, che Dio perdona, e non una Chiesa farisea che nasconde il suo peccato e che Dio non perdona”.
Con questo sguardo è stata affrontata la carrellata di dati e informazioni, che hanno disegnato un quadro della situazione degli abusi nella Chiesa italiana: sulla base di dati statistici italiani ed esteri si stima che la percentuale del clero che abusa è compresa tra il 3 e l’8 %. I centri di ascolto diocesani in Italia sono 130 (su 226 diocesi), tra cui il Centro Interdiocesano di Modena e Carpi.
Stando al rapporto presentato lo scorso 17 novembre e basato sui dati provenienti da solo 158 diocesi su 226, nel biennio 2020/21 sono stati segnalati 89 casi, metà dei quali relativi a fatti avvenuti di recente. L’ 83% dei casi è relativo ad abusi su minori dai 5 ai 17 anni. Prendendo a riferimento lo studio pubblicato nel 2018 per la Conferenza Episcopale Tedesca, la media del tempo che passa dall’inizio di un abuso alla denuncia è di 13 anni, mentre i provvedimenti a carico degli abusatori vengono presi mediamente dopo 22 e in genere consistono in blandi interventi.
Anche don Ugolini ha parlato dei centri di ascolto, constatando che sono pochi quelli che funzionano realmente. La responsabilità del centro affidata a un sacerdote o a un giurista potrebbe scoraggiare le persone abusate a fidarsi di un’istituzione che potrebbe apparire “sulla difensiva”, mentre le vittime devono sapere che possono essere ascoltate, credute, prese sul serio e riconosciute nella loro dignità. L’aspettativa delle vittime è che la Chiesa prenda atto di questa realtà sovente negata e provveda a mettere in atto i necessari cambiamenti per prevenire comportamenti di abuso.
Spesso le vittime si decidono a denunciare perché vogliono liberarsi dal senso di colpa di non averlo fatto prima, così da non aver potuto evitare che altri subissero la stessa sorte.
“Dobbiamo dircelo francamente” dice don Ugolini “le vittime non si sentono riconosciute come portatrici di un profondo bisogno di attenzione”. Purtroppo, si tende a parlare poco del problema e a non incoraggiare le persone a denunciare i fatti, privilegiando così la salvaguardia di una presunta credibilità e cercando di evitare di incorrere in pesanti oneri risarcitori.
La pedofilia clinica interessa non più del 15-20% dei casi, mentre la maggior parte degli abusanti è da ricondurre a persone immature nell’area psico-affettiva-sessuale-sociale. Sono personalità affette da sindrome narcisistica, che fanno dell’abuso di potere sugli altri il paradigma del loro operato. Invece dello sviluppo integrale della persona affidata, queste figure, che appaiono del tutto “normali” e non “mostri”, sono preoccupate di “incoronare se stesse” a scapito degli altri, calpestandone la dignità.
Don Ugolini ha concluso affermando che la realtà degli abusi è una realtà subdola presente ovunque e sempre. Da qui è richiesta la testimonianza e la vigilanza continua di tante persone mature che promuovano prevenzione e un serio cambiamento di mentalità. Ha poi fatto cenno all’avvio di alcune interessanti iniziative come l’accordo di collaborazione Diocesi-Procura di Bolzano e l’offerta, da parte di alcune diocesi, di finanziamento delle cure psico-terapeutiche delle vittime. Infine, ha auspicato che a guidare l’iniziativa responsabile della Chiesa sia un’autentica prossimità in grado di vincere qualsiasi esitazione.
Articolo a cura del Settore Adulti dell’AC di Carpi e Modena Nonantola