In un tempo in cui una pandemia come quella che stiamo vivendo ha portato con sé uno stravolgimento nella vita di tutti e spesso non in senso positivo, è già un segno di speranza potersi ritrovare per dialogare e confrontarsi su un tema come “Mettere in comune la vita – Il coraggio e la fatica di fare comunità insieme agli ultimi”, mettendo in circolo esperienze di vita diverse a servizio degli altri, ma accomunate dalla cura per i legami e le relazioni e da una passione che profuma di vocazione.
L’idea della tavola rotonda è nata durante la preparazione del laboratorio “Costruire la comunità a partire dagli ultimi” dell’Azione Cattolica, che quest’anno, dovendo rinunciare all’esperienza dei campi estivi, ha proposto un percorso, fatto di lectio divinae, cineforum, incontri formativi per tutti i gruppi, con l’obiettivo di mantenere il periodo estivo come un tempo per ricaricarsi e riflettere.
La quarantena ci ha fatto ricordare che senza le relazioni umane non siamo nulla, non riusciamo a farne a meno e la comunità nasce proprio da tale desiderio di mettersi in relazione con gli altri, ma non basta solo il desiderio. Essere comunità comporta una cura e un’attenzione all’altro, un impegno costante nel tempo, tenacia, coraggio, ascolto.
Ecco perché è importante tenere vivo l’interesse per l’altro con strumenti, progetti e modi creativi – come ha detto Alberto Bellelli – che allevino le sofferenze e che permettano ad ognuno di diventare attori del benessere della collettività.
Michela Marchetto di Caritas ha parlato di una “tessitura di comunità”, riferendosi al lavoro quotidiano e instancabile dei volontari e dei sacerdoti che sono sempre stati presenti, anche durante il lockdown, segno che la carità non si ferma mai.
Ciò che spinge l’uomo a creare relazioni è la consapevolezza che l’altro è “un mistero e portatore di una bellezza che non si conosce” ha affermato Sergio Zini della Coop. Soc. Il Nazareno: “in ognuno di noi c’è una sfumatura di bene da cogliere”, se si cerca la bellezza nell’altro, si contribuisce a costruire un bene comune, che va oltre i pregiudizi e i limiti che vediamo in chi è diverso da noi.
“La diversità è una difficoltà per tutti, ma può diventare una grande ricchezza” – ha aggiunto Tiziana Venturi di Venite alla festa – perché nell’incontro con l’altro si è costretti ad uscire e a muoversi in una continua tensione di accoglienza.
È per questo che anche don Filippo Serafini dell’associazione Il Porto ha sottolineato come il povero aiuti a costruire la comunità in modo autentico: il povero è un disturbatore, un provocatore, infastidisce le nostre pigrizie, le nostre povertà, ma tira fuori in noi quell’accoglienza che nasce dall’eucaristia che riceviamo; il confronto con il povero ci aiuta a tirare fuori ciò che già Cristo ha seminato in noi.
Tutti sono stati d’accordo nell’affermare che senza la cura per gli ultimi, quelli che nessuno vede o che si tende a ghettizzare, ad escludere dalla propria cerchia, non può esistere una vera comunità. Anzi, “gli ultimi diventano la nostra bussola per capire dove siamo e in quale direzione vogliamo andare” – come ha affermato Francesco Cavazzuti di Migrantes – perché è proprio nel confronto con il povero che ci si mette in discussione ed emerge di che pasta siamo fatti e che cristiani siamo. Questo tipo di relazione tuttavia esige una gradualità: la pazienza del conoscersi, la capacità di lasciare spazio all’altro perché emerga per quello che è senza pretese.
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